LA RIFLESSIONE – Per svuotare i campi Rom basta una seria politica abitativa?


Le direttive europee impongono all’Italia la chiusura delle aree nomadi entro il 2020. Pochi anni per porre fine a una situazione che si protrae da decenni e che forse nessuno si è mai impegnato concretamente a risolvere. Il punto di vista di una ex abitante di strada Aeroporto.

di Giada Rapa

Verna Vuletic

Torino – La storia della nascita dei campi Rom in città, considerati “un errore”, la racconta, per anni abitante dell’insediamento di strada Aeroporto, e oggi Presidentessa dell’associazione Idea Rom. “Alla fine degli anni ’70, i campi si basarono su un equivoco riguardante il presunto nomadismo dei Rom, completamente smentito sia dalla storia precedente le migrazioni verso l’Italia, poiché nei paesi d’origine tutti dimoravano in casa, sia da quel che è successo successivamente alla realizzazione degli insediamenti dal momento che molti sono rimasti stanziali. Nel corso degli anni la gestione di queste aree ha privilegiato sempre più gli aspetti relativi al controllo e poco quelli legati all’integrazione sociale, sviluppando dinamiche che non hanno favorito la responsabilizzazione e la collaborazione delle famiglie, quanto piuttosto un continuo conflitto tra opposti pregiudizi. Il notevole dispendio di risorse pubbliche degli ultimi anni, abbinato agli scarsi risultati raggiunti nella concreta emancipazione lavorativa e abitativa delle famiglie, hanno aggravato la condizione dei Rom, accusati del fallimento di progetti altrui e rimasti in condizioni addirittura peggiori di quelle che taluni enti hanno dichiarato di voler migliorare”. Tra questi progetti Vuletic cita “La Città Possibile” che con l’impiego di circa 5 milioni di euro provenienti dall’Unione Europea e destinati a Torino, avrebbe dovuto realizzare efficaci percorsi di svuotamento, integrazione e di cittadinanza per le comunità dei campi di Lungo Stura Lazio e di via Germagnano, ma i fatti non hanno supportato le aspettative e le inchieste aperte dalla Procura per truffa ne sono una prova.

“Tutto il privato sociale impegnato nel progetto, la chiesa, i comitati dei cittadini coinvolti nelle attività di monitoraggio e i soggetti istituzionali preposti alla regia – prosegue Vuletic – hanno accuratamente evitato ogni confronto e verifica con la società civile Rom e le proprie organizzazioni, privilegiando accordi con immobiliaristi dal torbido passato. L’area di Lungo Stura Lazio è stata chiusa, ma di fatto sono state spostate centinaia di famiglie in altri insediamenti spontanei anziché nelle dichiarate abitazioni”. Ma allora come può essere seriamente affrontato questo problema? “Dal nostro punto di vista – risponde la donna Rom – solo con una seria politica abitativa. Se le risorse, vari milioni di euro, nel corso degli anni, fossero state o venissero a oggi impiegate anche solo per il recupero del patrimonio immobiliare pubblico non utilizzabile a causa della necessità di lavori di ristrutturazione, si renderebbero disponibili centinaia di abitazioni, sia per le famiglie Rom sia per le altre in situazione di emergenza abitativa. Alla classe politica toccherebbe il compito di spiegare alla cittadinanza che iniziative di questo tipo sono di beneficio per tutti e non siano percepite come privilegio per scavalcare le graduatorie per l’accesso alla casa popolare. Il superamento dei campi nomadi consentirebbe il superamento dei tanti problemi, anche di percezione pubblica, che sistematicamente si presentano nei territori periferici della città”.


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Giovanni D'Amelio