Caselle: AEGIS ricorda il dramma dei campi di prigionia nipponici e quello delle Foibe


Con la rassegna “La Memoria del Futuro”, l’associazione vuole ricordare una storia troppo spesso dimenticata.

di Giada Rapa

Caselle – “Noi vogliamo ricordare e non dimenticare quello che è stato per evitare che si ripresenti”. Poche parole, ma decisamente concise, quelle dette da Davide Vottero, Presidente dell’associazione AEGIS, per spiegare le motivazioni che hanno portato il gruppo a organizzare una mostra sui campi di prigionia nipponici e due conferenze: uno su questo tema, e uno su quello delle Foibe. La mostra, inaugurata domenica 10 febbraio, sarà visitabile fino al sabato 16 febbraio presso la sede Comunale di piazza Europa 2, al mattino dalle 9 alle 12 e al pomeriggio dalle 15 alle 18.

I Campi di Prigionia Nipponici – Nel pomeriggio di domenica 10 febbraio la mostra è stata inaugurata con una conferenza sul tema tenuta dallo storico Davide Aimonetto. “Si tratta di una realtà devastante e davvero poco conosciuta” ha esordito Aimonetto, che prima di tutto ha fornito una precisa inquadratura del periodo storico. Un periodo in cui il Giappone inizia ad affermarsi come una grande potenza economica, che attraverso una ricca campagna pubblicistica riesce a trasmettere di sé un’alternativa al modello coloniale europeo. “Si tratterà però di un invito subdolo, poiché il Giappone sulla carta si pone come un modello alternativo, ma nella realtà si reputa superiore, soprattutto rispetto ai cinesi. Solo in Cina, la prima a pagare le conseguenze delle mire espansionistiche del Giappone con il famoso massacro di Nanchino, si conteranno in totale tra i 3 e i 5 milioni di vittime. Uomini e donne soprattutto di origine cinese, ma anche europea e americana si ritrovarono a vivere in una forma di costrizione molto severa, dove non veniva accettata la Convenzione di Ginevra. Si crearono campi di prigionia di una violenza inaudita, dove queste persone vennero private delle più elementari risorse e costrette al lavoro coatto. Ancora oggi non si sa con precisione il numero delle donne che vennero stuprate o furono costrette a lavorare nelle case di piacere per i militari nipponici”. Una pagina terribile della storia contemporanea, sul quale è calato il silenzio una volta terminata la guerra. “Non ci furono mai veri riconoscimenti. Le prime indagini degli anni ’70 e ’80 e le inchieste giornalistiche non sono mai riuscite a scalfire troppo la corazza di omertà che si è creata” ha concluso Aimonetto, ricordando come questo dramma fu causato non da un movimento politico, ma da un vero e proprio culto.

Il dramma delle Foibe – A parlare delle Foibe è stato invece lo storico Gianni Oliva, che ha sottolineato come “le vittime non sono né di destra, né di sinistra, ma della storia italiana” e che purtroppo la cultura non sempre basta a difenderci. “Non siamo in un momento storico così lontano dalle derive. L’umanità ha la tendenza di fare finta di non vedere quello che accade più in là”. Anche in questo caso è stato d’obbligo l’inquadramento storico generale, poiché “anche il dramma delle foibe va contestualizzato”. Come spiegato da Oliva, infatti, questo dramma è stato il prezzo pagato dall’Italia per aver perso la guerra. Le Foibe sono state una strage etnico-politica, fatta per decapitare la comunità italiana dei suoi rappresentanti e giustificare l’annessione di quelle aree da parte del generale Tito. Quest’ultimo arrivò a Trieste il 30 aprile 1945: in circa 40 giorni, fino al 12 giugno dello stesso anno, si stima che furono infoibate circa 8/9 mila persone. Oltre alla tragedia di queste uccisioni, Oliva si è concentrato su un altro dramma, ovvero quello dell’esodo di 300-320 mila persone, che da un processo di italianizzazione si trovano a viverne uno di slavizzazione. “Queste persone maturano la consapevolezza che non c’è più futuro, per questo decidono di venire in Italia. Ma l’Italia è un paese prostrato dalla guerra, che deve risollevarsi anche dal punto di vista economico, che non guarda con simpatia agli emigranti”. In ultimo, Oliva ha analizzato le cause che hanno portato a sottacere questo silenzio così a lungo. “C’è stato un silenzio internazionale, perché Tito è il primo leader a rompere i rapporti con Stalin, diventando così un interlocutore e non più un nemico. E, dal punto di vista diplomatico, non si mettono in imbarazzo gli interlocutori con domande scomode; un silenzio di partito, ma soprattutto un silenzio di Stato, perché ci siamo raccontati che avevamo vinto la guerra. Solo nel 2004 il Parlamento ha approvato una legge che istituisce il 10 febbraio come Giorno del Ricordo. Una giornata che andrebbe ricordata meglio, anche attraverso un lavoro con le scuole” ha concluso Oliva.


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