LA RIFLESSIONE – NOI NON DIMENTICHIAMO BORSELLINO


Esattamente 23 anni fa a Palermo veniva ucciso Paolo Borsellino. Per ricordare la figura del giudice antimafia riportiamo un articolo di Gianni Riotta, pubblicato sul Corriere della Sera il 20 luglio 1992, il giorno dopo la strage, che ben delinea il tratto personale del magistrato e il contesto storico del momento.

“E’ FINITA, ORMAI NON C’E’ PIU’ NULLA DA FARE “: PESSIMISTA, CONTINUAVA LA LOTTA PER DOVERE

di Gianni Riotta (dal Corriere della Sera, 20 luglio 1992)

via-damelio-5Paolo Borsellino aprì le mani grandi sulla bara di Giovanni Falcone, allungata sotto i marmi fascisti del Palazzo di Giustizia di Palermo. L’ atrio era zeppo di gente, irata, commossa, dolente. Il gesto di Borsellino sembrò svuotarla, erano di nuovo lui e l’amico Giovanni e basta, come all’oratorio di San Francesco della Kalsa, “con tanto sole tanti anni fa, quelle domeniche da solo in un cortile a passeggiar”. Chi stava vicino si tirò in disparte: sul momento veniva da pensare al giuramento di un commilitone, alla bontà e alla virtù di chi ambisce a far qualcosa, non a guadagnare più soldi o accumulare galloni sulle maniche. Capisco adesso che le mani di Paolo Borsellino piantate sulla bara di Falcone, come ad imprimere le impronte, quasi il coperchio di mogano fosse cemento fresco e palme e polpastrelli potessero restare stampati fino al giorno del giudizio, erano invece un appuntamento. Borsellino aveva capito che la battaglia era perduta e che, come sempre nelle vere guerre, non c’è scampo: o si vince o si muore. A lui toccava morire. Reso omaggio all’amico di gioventù si appoggiò al muro di granito lucido e d’istinto accennò a cercare una sigaretta, scosse la testa come se gli fosse venuta in mente una cosa che non si fa e disse due parole ai cronisti, più parlando a se stesso che altro.

Gli appunti di quella domenica, una delle ultime lasciate a Paolo Borsellino, sono amarissimi: “E’ finita, non c’è nulla da fare, niente mezzi, niente indagini, no non credo… no, non credo… restare? Che cosa dovrei fare? C’è qualcosa d’ altro che potrei fare?”. Se Falcone era il palermitano “bauscia”, sfrontato, audace, a tratti arrogante, Borsellino era pirandelliano, malinconico, rassegnato, crepuscolare. Chi chiacchierava dieci minuti con Falcone usciva convinto che si potesse vincere la battaglia contro la mafia. La stessa discussione con Borsellino lasciava un’impressione tragica: la sconfitta secondo lui assicurata dalla sproporzione delle forze in campo, ma l’etica imponeva di battersi. E quindi ci si batteva. Fino in fondo. Il figlio del farmacista di via della Vetreria a Palermo era il fante, la gente s’immaginava Falcone come il “Barone Rosso” che solcava i cieli, mentre a Palermo, a Trapani e Marsala, Borsellino rognava, come tutti i fanti, si lamentava dello stipendio, 60 milioni l’anno dopo un quarto di secolo di carriera, del tempo perso con i borseggiatori, della commissione d’esami per ufficiale esattoriale che era stato costretto a controllare. Falcone mordeva il freno nella vita sotto scorta. Borsellino sopportava e ghignava amaro: “Ho anche fatto le vacanze all’Asinara, nel 1985, per stendere con Giovanni le ultime pagine dell’istruttoria per il maxiprocesso”. La sua malinconia gli dava un humour senza sorrisi, alla Buster Keaton: “Giovanni, devi dirmi la combinazione della tua cassaforte così, quando ti ammazzano la apro, altrimenti come faccio?”.

Nel gioco macabro dei magistrati antimafia, scrivere i propri necrologi come sarebbero apparsi dopo gli attentati sul “Giornale di Sicilia“, Borsellino era bravissimo: oggi solo Peppino Di Lello, ultimo eroe del pool, può giudicare quanto il collega sia andato vicino alla verità . Paolo Borsellino era convinto che la battaglia fosse tatticamente perduta, che la mafia avesse vinto la mano e impugnava il millennario proverbio “Calati juncu ca passa la china”, il giunco si piega sotto la corrente del fiume, nel senso giusto, rassegnato al presente, ma convinto che, passata la piena, si potesse tornare dritti. Ripeteva che i mezzi non bastavano, che in provincia non c’erano i computer, la guerra di fanteria l’aveva persuaso che “la campagna deve accerchiare la città”; solo strangolando la mafia in provincia, si sarebbe fatta saltare la cupola palermitana. Sapeva di non poter avere interlocutori in una nazione opulenta e corrotta, incapace di reagire. Diffidava delle teorie, ligio ai “Vecchi e i giovani” di Pirandello: “La filosofia ha questo di buono: che alla fine dà sempre ragione a chi, comunque, riesca ad imporsi”. Come un fante intrideva le frasi di imprecazioni, detestando la naja antimafia e arrivando però puntuale all’appuntamento con il suo compagno d’ armi.


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Giovanni D'Amelio